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Letica della gentilezza

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Guido Brunetti

L’etica della gentilezza e la sua funzione terapeutica.

 

Il 13 novembre ricorre la “Giornata mondiale della gentilezza", un anniversario particolarmente importante in una fase della nostra vita sottoposta da tempo a disagi, tensioni, ansia e stress. Apparentemente semplice e comprensibile, il concetto di gentilezza assume molte forme e significati. Soprattutto nella nostra epoca, estranea e indifferente ai valori, all’interiorità e alla generosità, la gentilezza è un elemento necessario alla conoscenza, alla crescita dell’individuo e alla cura di ogni umana sofferenza.

 

E’ un sentimento fortemente legato alla saggezza, la quale ha una dimensione etica, come concorda il grande psichiatra Eugenio Borgna. E’ l’arte di ‘condursi’ nella vita per conseguire quello che ci si prefigge come ideale etico. Non c’è segno esteriore di cortesia- ha scritto Goethe- che non abbia un profondo senso morale. Oggi, avvertiamo molto la mancanza di gentilezza, ossia di educazione, cortesia, affabilità, buoni sentimenti, nobiltà d’animo, elevatezza morale e spirituale. In questo senso, essa è anche empatia, che si declina in base alle teorie filosofiche e neuro scientifiche.

 

Si tratta di comportamenti, come mostrano le ricerche neuro scientifiche, che affondano le proprie radici nei circuiti cerebrali più antichi, evolvendosi dagli inizi ancestrali nei cervelli dei rettili, milioni di anni fa. L’investimento sulla gentilezza, solidarietà o empatia, si fonda su un insieme di meccanismi del cervello e sistemi neurali preposti all’accudimento dei neonati e allo sviluppo dei legami affettivi.

 

Nella storia dell’Occidente, la gentilezza è soprattutto legata alla cristianità, la quale valuta come sacri i sentimenti generosi delle persone espressi attraverso la carità, l’amore e l’altruismo. La gentilezza, per il filosofo e imperatore Marco Aurelio, è “la delizia più grande dell’umanità”, un fattore importante- secondo Darwin- per l’evoluzione della specie e dell’umanità, un indicatore- aggiunge lo psicoanalista Winnicott- di salute mentale, che ci rende- precisa Rousseau- “pienamente umani”. Dunque, la gentilezza come valore umano, sociale e morale.

 

Recenti ricerche nel campo delle neuroscienze mostrano al riguardo che anche gli animali hanno una tendenza alla generosità. In pratica tutti i mammiferi, e gli uccelli, manifestano l’impulso all’accudimento. Questi impulsi provengono da meccanismi del cervello innati ed hanno la capacità di aprirsi all’ascolto e al dialogo, di scendere nelle terre sconosciute della nostra interiorità. E’ cura e attenzione per gli altri. Ci avvicina al dolore e alla sofferenza e ne lenisce le ferite. Non c’è cura, cura dell’anima e cura del corpo, se non è ‘intessuta’, per Borgna, di gentilezza e saggezza. La salute mentale di tutti i mammiferi è legata in maniera decisiva alla qualità di questi sentimenti. Nell’attivazione di tali rapporti emotivi ed affettivi, un ruolo rilevante è svolto dall’ossitocina e da altri oppioidi, i quali possiedono una quantità di effetti positivi per il benessere fisico e mentale della persona.

 

La medicina e la psichiatria hanno bisogno di parole ‘delicate’ e piene di gentilezza, prudenza e saggezza. Le stimmate della gentilezza si rivelano nel modo di ascoltare, comprendere e rispettare. Anzitutto, occorre scegliere le parole giuste, quelle che non feriscono, ossia che generano ferite che sanguinano. Esse possono salvare o perdere una persona. Si devono perciò scegliere le parole che salvano e aiutano a vivere. I farmaci, soprattutto in psichiatria non bastano. Le parole gentili curano, hanno una forza non solo umana e morale, ma anche terapeutica, salvifica. E’ pertanto importante anche il “modo” in cui si dicono. Di qui, il rilievo che assume il linguaggio delle parole, il linguaggio dei volti e degli occhi, degli sguardi, delle lacrime e del dolore. Parole gentili e voci garbate, rispettose, educate e voci gridate, aggressive e rozze.

 

Una parola poco gentile pronunciata dal medico può causare, lo ripetiamo, “ferite che sanguinano”. Ricerche di autorevoli medici e studiosi di medicina mostrano che il medico, la medicina e la sanità attraversano una forte crisi. Essi hanno acquistato in tecnologia quello che hanno perduto in umanità. Un cambiamento traumatico, una rivoluzione antropologica. Una barriera calata tra medico e paziente. Un processo di “disumanizzazione”.

 

I medici appaiono ansiosi, insicuri, frustrati, demotivati, stressati e dunque poco gentili, non empatici, scostanti, rigidi, aggressivi, algidi. Sono sintomi messi in opera per controllare le loro ansie e la loro insicurezza. Sono meccanismi di difesa già studiati in psicoanalisi. Emerge un medico burocrate, somatologo, attento solo ai dati di laboratorio. Il tecnico di un corpo diviso. Scompare la persona del malato. Che diventa un Io scisso, frantumato, senz’anima. C’è solo un insieme di organi su cui indagare, spesso in modo ossessivo. Il paziente diventa una macchina e il medico un meccanico. Con la persona, sono scomparse le antiche, nobili virtù del medico, come bonomia, calore affettivo, serenità, conforto, sostegno, affabilità, gentilezza, empatia. Tutte qualità invocate inutilmente di una professione che gradualmente “rinuncia” alla propria vocazione “umanolgica”. Sono qualità fondamentali in ogni cura, del corpo e della mente. Sono alla base della stessa cura.

 

C’è una forte esigenza di ‘umanità’ e ‘umanizzazione’. E’ un vistoso paradosso: quello di dover rendere umano ciò che umano e soltanto umano dovrebbe essere per “statuto e definizione”, e che invece si ammette essere “scaduto” a “disumano”. Una cura stravolta in “incura”. Il risultato è una progressiva “de-professionalizzazione” del medico con la privazione di ogni rapporto interpersonale empatico. E’ la “disumanizzazione” della medicina. Una realtà percepita anche da molti medici. Per curare e guarire non basta la scienza. Ci vuole l’anima. Che è disponibilità umana, capacità di empatia, di comunicare e di relazionarsi con l’altro. Occorre una dimensione etica dell’educazione medica, la quale esige il possesso di un bagaglio di valori e qualità, al centro dei quali ci sono i bisogni dell’essere umano. Che non è solo corpo, ma è soprattutto spirito, mente, coscienza, Io, emozione, sentimento, essenza. Una persona che deve essere curata in un ambiente altamente umano e umanizzante. Dove non ci siano mancanza di gentilezza, arroganza o supponenza, ma rispetto, educazione, disponibilità, sensibilità, sostegno, calore emotivo. A tutti i livelli.

 

Per molti autori infine la gentilezza è considerata un sintomo di fragilità e di debolezza. Spesso, essa è vista come una forma di moralismo, egoismo o ipocrisia. Per alcuni studiosi, la virtù dei ‘perdenti’, un sintomo di narcisismo. Secondo Nietzsche, la gentilezza rivela una ‘cattiva coscienza’. Per il filosofo Hobbes, gli uomini sono ‘bestie egoiste’, l’esistenza è ‘una guerra di tutti contro tutti’. Sono considerazioni che rinviano alle ultime scoperte delle neuroscienze. Queste dimostrano che il cervello umano è una combinazione di egoismo e altruismo, eros e thanatos, bene e male , pietà e crudeltà, miseria e nobiltà.

 

Concludendo, mi piacerebbe vivere in un Paese in cui oltre all’osservanza di principi e regole, si coltivasse l’etica della gentilezza e dell’empatia.

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